domenica 14 luglio 2019

CAROLA RACKETE


Signor Direttore,
a smentita delle critiche di Lorenzo Sgarbi al suo editoriale del 30 giugno ribadisco le ragioni che lei vi ha espresso, come di Franco Reggiani e di Claudio Morselli che già sono intervenuti in materia. Carola Rackete è giustamente libera e benemerita, per niente affatto una fuorilegge, in quanto ha dato pieno adempimento alla legge fondamentale del nostro stato, la Costituzione, alla legge di ogni nostra legge che all’ articolo 10 recita espressamente :“L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici”. E gli accordi internazionali cui si fa menzione restano tuttora quelli di Dublino, almeno fintantoché, al pari di Salvini Matteo, si sabota il loro cambiamento già deciso dal Parlamento europeo nel 2017, per cui lo sbarco di migranti avverrebbe non più su coste spagnole, italiche, o maltesi, ma europee, e sarebbe assunto in proprio da guardie costiere europee.. Ne consegue ineludibilmente che fuori della Costituzione e dei fuorilegge sono invece coloro che a Carola Rackete si sono opposti, e tanto più se minano l’autonomia del potere giudiziario, emettendo, anticipando sentenze, minacciando pretori e giudici delle indagini preliminari che alla Costituzione si sono dimostrati ossequienti, come ha ben detto con fondato timore in un suo intervento in contemporanea Romano Vincenzi. Va inoltre respinta al mittente con infamia l’accusa ipocrita che siano le Ong o chi dà soccorso ai migranti i complici dei trafficanti di esseri umani, criminalizzandoli come chi avesse soccorso gli ebrei in fuga per mare dal nazismo, o che fossero perseguitati e messi al bando dalle leggi razziali nazifasciste. Del resto nessuna prova è stata raccolta che suffraghi una collusione tra scafisti e Ong, nessuna coincidenza è stata appurata tra aumento delle partenze e aumento della presenza delle Ong, quale fattore attrattivo. Collaborazionisti dei trafficanti, per giunta negazionisti, sono invece quanti al governo libico seguitano a inviare motovedette e altre forme di aiuto, poiché la presunta guardia costiera libica per lo più non è che un travestimento degli stessi trafficanti, o con loro è in combutta, e riconsegna ad essi i migranti perché fuori o dentro i lager libici possano essere di nuovo torturati, stuprati, ricattati presso le loro famiglie per ottenere i soldi di un’ ulteriore falsa partenza. E’ proprio il respingimento illegittimo, diretto o per mancato soccorso, in una Libia che è area di guerra, che cospira con tale forma di riciclaggio di esseri umani . La testimonianza del somalo Salim Karaafe riportata dalla Gazzetta è che più eloquente in tal senso, ad avere occhi che vogliono vedere, orecchie che vogliono sentire, cuore e ragione che vogliono intendere, anziché inferocirsi in un vittimismo autogiustificatorio che ci rende spregevoli agli occhi del mondo, ove sono paesi tra i più poveri come l’Uganda, di rifugiati ad averne da soccorrere almeno 1,2 milioni, non come noi poco più di 3.000 dall’ inizio dell’anno, solo un decimo dei quali è stato salvato dalle Ong.
Odorico Bergamaschi

I cavalli di Giulio Riscrittura


Signor Direttore,
Siamo oramai a metà del guado dell’anno che in Mantova si è dedicato a Giulio Romano, e mentre sono già in libreria le pubblicazioni sull’artista di un po’ tutti i nostri storici d’arte, vuoi l’Occaso, vuoi Braglia, vuoi Girondi, va in crescendo il rullare dei tamburi e lo squillare delle trombe della sua celebrazione più ufficiale e autorevole in Palazzo Ducale e di quella più enfatico propagandistica dislocata nel Palazzo Te, vuoi convertendo sovranisticamente Giulio Romano in un Giulio Mantovano , vuoi acchiappando turisti in virtù di una mostra concepita alla luce di un’idea tutta orgasmica di arte e desiderio, di un Giulio Romano che più sexy di così non lo si può scovare. Dunque ben vengano, vivaddio, a riequilibrio di un celebrativismo negato finanche a Leonardo nel concomitante Cinquecentenario della sua morte, le stroncanti paginette su Giulio Romano scritte di recente da Antonio Moresco,nel suo incantevole libretto “ La mia città”, edita da “Nottetempo”, in sana controtendenza come è inevitabile che sia per chi è davvero scrittore e critico. Ma che asserisce mai il nostro Moresco di davvero terribile su Giulio Romano? Tutto le sfumature di male possibile, direi, nel breve spazio di quattro deliziose paginette: che il nostro Giulio fu “ un ottuso e arrogante allievo di Raffaello, venditore di fumo tardo rinascimentale”, colpevole, a suo dire, di avere “riempito tutta la città di Mantova dei suoi bugnati del cazzo”, un po’ come l’ imbarbimento dell’imbarbarimento attuale, mi vien da soggiungere, il resto di Moresco ancor più in discesa libera … A dire il vero, a salvaguardarlo dalla facile rimozione nell’ irrilevanza di chi lo perdoni con l’adagio che egli non è poi uno del mestiere, che ad uno scrittore che sia battitore libero quando è in vena di battutacce si può perdonare anche l’ imperdonabile, sempre che ci diverta ed intrattenga, va ricordato che nella sua denigratio di Giulio Romano il Moresco è in illustre compagnia di storici e critici, quali J. Burckardt o Gould, e che se dai tempi dell’Hartt, ossia dal 1958, non esce nel mondo più alcuna monografia globale su Giulio Romano, neanche per editto, non può essere solo per l’ignavia nei suoi riguardi di noi moderni e contemporanei, mentre resta tutto da dimostrare che non sia vero niente di quel che Moresco ha detto di male di G. Romano. Lasciando ad altri tale compito che non mi intriga per niente, nel salvare almeno il minimo che sia salvabile del Pippi vorrei qui accodarmi a quello che “ delle imbarazzanti diavolerie di Giulio Romano” resta salvabile per lo stesso Moresco. Sarà pur poco, ma è pur sempre una pepita, se è colta con tale acrimoniosa avversione a tutto campo, rispetto a quanto venga rimasticando qualche venerabile maestro, autocelebrandosi nel concelebrare maxima cum exaggeratione Giulio Romano. Quel che Moresco salva del Giulio Romano e del Te, “ con qualche medaglione là in alto, qualche silenziosa barca che scivola nella prima luce sull’acqua…” sono i cavalli, nient’altro che i cavalli dell’omonima sala, ma almeno quelli, che anche a me piacciono tanto, anche se magari sono l’opera di qualche suo allievo. E non solo quelli, che con gli alti fasti delle scuderie gonzaghesche innovano la grandiosità in tema di cavalli della pittura di corte mantovana, dal Pisanello al Mantegna, ma anche i cavalli, e ancor più, della sala di Troia in Palazzo Ducale, che mi dicono ancora di più per come ne è espresso il furore fisico, nelle froge e negli occhi, nell’ imbizzarrirsi dello scalpitio e delle criniere. Li si confronti con le figure umane circostanti, insieme a quelli invece olimpici del Mantegna , e si dica tra umanità adulta e cavallinità a chi va l’empatia dei due artisti di corte, in quale resa dell’ empito agonistico di Teucri e cavalli sia più bravo Giulio Romano, o chi per lui, grandeggiando non solo nel disegno, come sempre, ma pur nel colore della pittura, dove a volgere alla perfezione il nostro “ gigante” latita tanto un suo vero tormento. Perché è in quei cavalli, come nelle acque e nelle linfe sorgenti e scorrenti della sala di Amore e Psiche, nella resa, se è a presa rapida, di satiri priapici e condiscendenti ninfe, della naturalità del mondo istintuale in cui noi rientriamo, tutti quanti , che Giulio Romano rivela il meglio di sé nell’arte raffigurativa. Come dal Leonardo della battaglia di Anghiari, è da tale Giulio Romano che Rubens desunse insieme alle sue ninfe perturbate i suoi magnifici cavalli, e ne è una riprova che benché dipingesse allora in Spagna, risale a un intermezzo dei primi anni del suo soggiorno e apprendistato in Mantova , nel 1603, lo stupendo suo ritratto del Duca di Lerma e del suo cavallo, in cui l’animale iniettato della stessa ferinità istintuale di quelli di G. Romano nella sala di Troia. Un gran Rubens che ritroveremo nei pittori di genere del Settecento, quali J. Wooton, J. Seymour, G. Stubbs, B.West, , in Th. Gainsbourough, J. Reynolds, in Francia un David, Gericault, Delacroix, poi nello stesso De Chirico.
Odorico Bergamaschi