Siamo oramai a metà del guado dell’anno che in Mantova si è dedicato a Giulio Romano, e mentre sono già in libreria le pubblicazioni sull’artista di un po’ tutti i nostri storici d’arte, vuoi l’Occaso, vuoi Braglia, vuoi Girondi, va in crescendo il rullare dei tamburi e lo squillare delle trombe della sua celebrazione più ufficiale e autorevole in Palazzo Ducale e di quella più enfatico propagandistica dislocata nel Palazzo Te, vuoi convertendo sovranisticamente Giulio Romano in un Giulio Mantovano , vuoi acchiappando turisti in virtù di una mostra concepita alla luce di un’idea tutta orgasmica di arte e desiderio, di un Giulio Romano che più sexy di così non lo si può scovare. Dunque ben vengano, vivaddio, a riequilibrio di un celebrativismo negato finanche a Leonardo nel concomitante Cinquecentenario della sua morte, le stroncanti paginette su Giulio Romano scritte di recente da Antonio Moresco,nel suo incantevole libretto “ La mia città”, edita da “Nottetempo”, in sana controtendenza come è inevitabile che sia per chi è davvero scrittore e critico. Ma che asserisce mai il nostro Moresco di davvero terribile su Giulio Romano? Tutto le sfumature di male possibile, direi, nel breve spazio di quattro deliziose paginette: che il nostro Giulio fu “ un ottuso e arrogante allievo di Raffaello, venditore di fumo tardo rinascimentale”, colpevole, a suo dire, di avere “riempito tutta la città di Mantova dei suoi bugnati del cazzo”, un po’ come l’ imbarbimento dell’imbarbarimento attuale, mi vien da soggiungere, il resto di Moresco ancor più in discesa libera … A dire il vero, a salvaguardarlo dalla facile rimozione nell’ irrilevanza di chi lo perdoni con l’adagio che egli non è poi uno del mestiere, che ad uno scrittore che sia battitore libero quando è in vena di battutacce si può perdonare anche l’ imperdonabile, sempre che ci diverta ed intrattenga, va ricordato che nella sua denigratio di Giulio Romano il Moresco è in illustre compagnia di storici e critici, quali J. Burckardt o Gould, e che se dai tempi dell’Hartt, ossia dal 1958, non esce nel mondo più alcuna monografia globale su Giulio Romano, neanche per editto, non può essere solo per l’ignavia nei suoi riguardi di noi moderni e contemporanei, mentre resta tutto da dimostrare che non sia vero niente di quel che Moresco ha detto di male di G. Romano. Lasciando ad altri tale compito che non mi intriga per niente, nel salvare almeno il minimo che sia salvabile del Pippi vorrei qui accodarmi a quello che “ delle imbarazzanti diavolerie di Giulio Romano” resta salvabile per lo stesso Moresco. Sarà pur poco, ma è pur sempre una pepita, se è colta con tale acrimoniosa avversione a tutto campo, rispetto a quanto venga rimasticando qualche venerabile maestro, autocelebrandosi nel concelebrare maxima cum exaggeratione Giulio Romano. Quel che Moresco salva del Giulio Romano e del Te, “ con qualche medaglione là in alto, qualche silenziosa barca che scivola nella prima luce sull’acqua…” sono i cavalli, nient’altro che i cavalli dell’omonima sala, ma almeno quelli, che anche a me piacciono tanto, anche se magari sono l’opera di qualche suo allievo. E non solo quelli, che con gli alti fasti delle scuderie gonzaghesche innovano la grandiosità in tema di cavalli della pittura di corte mantovana, dal Pisanello al Mantegna, ma anche i cavalli, e ancor più, della sala di Troia in Palazzo Ducale, che mi dicono ancora di più per come ne è espresso il furore fisico, nelle froge e negli occhi, nell’ imbizzarrirsi dello scalpitio e delle criniere. Li si confronti con le figure umane circostanti, insieme a quelli invece olimpici del Mantegna , e si dica tra umanità adulta e cavallinità a chi va l’empatia dei due artisti di corte, in quale resa dell’ empito agonistico di Teucri e cavalli sia più bravo Giulio Romano, o chi per lui, grandeggiando non solo nel disegno, come sempre, ma pur nel colore della pittura, dove a volgere alla perfezione il nostro “ gigante” latita tanto un suo vero tormento. Perché è in quei cavalli, come nelle acque e nelle linfe sorgenti e scorrenti della sala di Amore e Psiche, nella resa, se è a presa rapida, di satiri priapici e condiscendenti ninfe, della naturalità del mondo istintuale in cui noi rientriamo, tutti quanti , che Giulio Romano rivela il meglio di sé nell’arte raffigurativa. Come dal Leonardo della battaglia di Anghiari, è da tale Giulio Romano che Rubens desunse insieme alle sue ninfe perturbate i suoi magnifici cavalli, e ne è una riprova che benché dipingesse allora in Spagna, risale a un intermezzo dei primi anni del suo soggiorno e apprendistato in Mantova , nel 1603, lo stupendo suo ritratto del Duca di Lerma e del suo cavallo, in cui l’animale iniettato della stessa ferinità istintuale di quelli di G. Romano nella sala di Troia. Un gran Rubens che ritroveremo nei pittori di genere del Settecento, quali J. Wooton, J. Seymour, G. Stubbs, B.West, , in Th. Gainsbourough, J. Reynolds, in Francia un David, Gericault, Delacroix, poi nello stesso De Chirico.
Odorico Bergamaschi
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