giovedì 19 gennaio 2012

il passo indietro di Dio

Signor Direttore,
Nel corso degli ultimi mesi e delle vicende della grande crisi che hanno sconvolto molti dei nostri destini, la mia esperienza più emozionante di lettore delle missive che s’inoltrano ai quotidiani di Mantova è stata senz’altro quella che mi ha coinvolto nelle vicissitudini recenti di Stefano Gavioli. Mentr’io uscivo drammaticamente dall’insegnamento e mi addentravo in tutte le incertezze angoscianti del pensionamento, incalzato dallo stroncamento delle mie aspettative che le manovre economiche incombenti potevano determinare, mediante le sue cronache sulle colonne della Voce di Mantova ho ritrovato Stefano Gavioli addentro al tunnel di una variante del mio destino ancora più sconvolgente, a cinquant’anni e in mobilità, ridotto a quelle privazioni di vita, il freddo, il buio, l’uso della bicicletta, il risparmio, “sempre e solo risparmiare”, che per me da decenni sono tuttavia forme abituali di rinuncia, o di distacco, che pratico ben volentieri per consentirmi di vivere le scelte di vita che sono la mia vocazione in questi “global times. In tale duplice fuoriuscita, ho rinvenuto anch’egli alle prese con ricordi di mortificazioni umilianti, che per Stefano Gavioli sono rimasti ancora in sospeso, mentre per me sono un intero stadio della mia esistenza che ho rimosso od estirpato. Ma era tale lo spirito intrepido con cui rievocava la sua controfigura al bel tepore sotto le coperte, quand’erano già le tre di notte senza che fosse ancora riuscito a trovare il sonno, mentre in realtà era intento a scrivere, benissimo, i referti del suo vissuto emozionale che voleva far credere al lettore che non riuscisse ad esprimere sbloccandosi, era tale lo slancio in avanti della sua fede nella realtà, che non mi ha sorpreso, all’inizio del nuovo anno, constatare che non solo era caduto in piedi, “ landed on his feet”, com’era accaduto anche a me, a onore del vero, ma che sulla Voce aveva già l’aire di dire la sua allo stesso “caro Dio”, intimandogli di fare un passo indietro, come secondo gli stereotipi in uso nei notiziari, le piazze richiedono agli stessi dittatori arabi che non lasciano il potere. Più secolarmente si è poi concesso di invitare i cari dinosauri dell’estrema sinistra a rimanersene rintanati, a non scendere in piazza per cavalcare la protesta di un mondo rispetto ai cui cambiamenti sono rimasti remoti anni luce.
Ma non è tanto sul fatto che possa avere gettato il ferro a fondo disimpegnandosi a sinistra, quanto sul passo indietro che richiede a Dio, che m’interessa dire a Stefano Gavioli che cosa ne penso.
Ora, se c’è un ampio orizzonte d’intesa nella teologia cristiana contemporanea, esso è dato dallo spazio di libertà che fin dalla fondazione del mondo Dio ha concesso all’uomo e all’operare autonomo degli eventi naturali, adempiendo appunto a quel passo indietro che Stefano Gavioli gli chiede così perentoriamente di fare, da quando il settimo giorno è entrato mitologicamente nel riposo sabbatico.
Asserisce ad esempio la grandissima Simone Weil: “Per Dio la Creazione non è consistita nell’estendersi, quanto piuttosto nel ritirarsi. Egli ha cessato di “ comandare dappertutto, là dove n’aveva il potere”… Questo movimento è l’amore ( Quaderni III 96). “Dio non è onnipotente in quanto creatore. La creazione è un’abdicazione. Piuttosto, Egli è l’onnipotente nel senso che la sua abdicazione è volontaria”( Quaderni III, 152).
Appunto perché Dio ha compiuto da sempre questo passo indietro rispetto agli eventi del mondo, con la nostra libertà sono dati tutto il male e le sventure in cui essa si adempie, secondo la prospettiva umana delle vicende cosmiche.
E’ in tal senso che l’uomo è ad immagine di Dio nella sua vocazione ad amare, ma nella sua realtà vivente per lo più è tutt’altro che buono e a Sua somiglianza. Tanto più se è un uomo particolarmente “religioso”, come quelli che misero a morte Gesù, - che tra l’altro, come Buddha non era affatto un religioso-, ancor più se è uno di quegli uomini di chiesa che come insegna la figura del grande inquisitore di Dostoevskij, Cristo tornano sistematicamente a metterlo a morte se lo rincontrano. “La Chiesa, non il mondo, la Chiesa – ha crocefisso Cristo”, ha ricordato il teologo protestante Karl Barth alla coscienza cristiana del Novecento.
Se c’ è dunque alcunché di Dio che Stefano Gavioli non ha motivo alcuno di temere e di avversare, è che Dio voglia a lui imporsi con le buone o con le cattive.
Dio non lo solleverà, ed esimerà mai, dall’onere e dal privilegio di un percorso di fede “ personale e intimo”. I dubbi di Stefano Gavioli sono per Dio sacrosanti. se significano ascolto e apertura.
Per Dio, pertanto, sempre secondo le parole di Simone Weil, e proprio come la pensa Stefano Gavioli, davvero è meglio essere atei che avere una fede consolatoria, poiché “ la religione in quanto fonte di consolazione è un ostacolo alla vera fede. In questo senso, l’ateismo è una vera purificazione. Devo essere atea con la parte di me stessa che non è adeguata a Dio”( Quaderni II, 337) ( traggo le citazioni di Simone Weil dal bellissimo “Simone Weil 15 meditazioni, Gribaudi”, edito di recente).
E per quanto ne so, da peccatore in cui Dio confida, anche se nella mia indecenza mi è davvero arduo comprendere come Dio per me, come per ognuno di noi, possa essere addirittura folle d’amore, la fede più che su prove, od argomenti, si fonda sulle trasformazioni che in noi opera l’aver avuto ed il seguitare ad aver fede, soprattutto quando la sventura si fa provvida, perché l’azione di grazia, in virtù della potatura che subiamo dalla natura chirurgica del bene, ci rende capaci di fare ciò che altrimenti non saremmo mai riusciti a compiere. “ Nel caso del male causato dall’uomo, sarà un bene che non sarebbe mai potuto emergere senza il male che mai sarebbe dovuto succedere ( Paul Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano, pg. 69). E anche la messa in mobilità può allora diventare un male propizio. O quanto ancora peggiore e ben più tremendo può capitarci.

lunedì 16 gennaio 2012

il museo d'arte moderna e contemporanea nell'ex caserma

Bentornato il Mac in campo, per riproporre tramite il suo presidente, Eristeo Banali, che l’ex caserma di Largo XXIV Maggio diventi la sede del coronamento del sogno, oramai pluridecennale, del Museo di arte contemporanea di Mantova.
C’è da sperare che i tempi siano finalmente maturi, - alla ricomparsa sulla Gazzetta di Mantova dell’8 gennaio, appena trascorso, della medesima titolazione in cui già in data 29 novembre 2009 si auspicava “il Museo nell'ex caserma”, ma che in un balletto di titoli il 28 novembre 2011 aveva ceduto il passo alla formulazione della proposta alternativa che si insediasse “ il tribunale nell’ex Caserma”, avanzata da Sergio Cordibella quale presidente di Italia nostra.
Ciò che lascia supporre che questa volta non si stia assistendo all’ennesimo vano sforzo dei Troiani, è che Eristeo Banali a tutela della destinazione museale del monumento, e a sua salvaguardia da ogni inappropriata manomissione speculativa e dal degrado fin anche igienico-sanitario che ne è in corso, può accampare i vincoli ad un uso esclusivamente culturale dell’ex convento cinquecentesco, che a suo tempo furono posti dall’ex direttore per i Beni Architettonici e paesaggistici della Lombardia, Carla di Francesco.
Ancor più, alla petizione on line ora corrisponde il coinvolgimento di tutto l’insieme di forze, Comune, Provincia, Università, Regione, Ministeri, Comunità Europea, oltre ai privati cointeressati, il cui concorso è indispensabile perché l’ obiettivo sia conseguito.
Il recupero a Museo dell’edificio demaniale dimesso dell’ex convento-caserma Curtatone e Montanara, un intervento che può diventare un riferimento esemplare nell’architettura e nell’urbanistica contemporanea, renderebbe possibile portare a compimento la sublimazione mirabile del sito di Palazzo Te e dei monumenti del complesso di San Sebastiano, inclusa la casa del Mantegna, in un polo museale eccezionale della nostra città, integrativo e complementare di quello del Palazzo Ducale.
Il progetto del Mac, incentrato sull’insediamento di un Museo dell’arte contemporanea nell’ex caserma dei Canonici Lateranensi di San Sebastiano, in realtà si proietta oltre tale intento pur eccezionale, se si considerano le destinazioni ulteriori dell’edificio monumentale che Eristeo Banali prospetta nella sua intervista, a integrazione delle raccolte civiche del Museo di San Sebastiano che lo fronteggia. In tal senso, l’attuazione di tale disegno corrisponde talmente alla vocazione della nostra città, che può rientrare felicemente nell’alveo di quanto ha prefigurato a suo tempo lo stesso Salvatore Settis, nel suo “ Progetto per Mantova”, laddove nel complesso di San Sebastiano ha preventivato la formazione del polo civico del sistema integrato di un unico Museo della Città, un “ multi purpose complex” in cui potrebbero confluire le raccolte civiche non esposte al pubblico, o la cui sistemazione attuale non ne sia attrattiva. Ad esempio, tra quelle indicate o suggerite da Salvatore Settis, potrebbero figurarvi le collezioni permanenti ora sistemate nel Palazzo Te, – innanzitutto, a mio avviso, la Sezione gonzaghesca e la Collezione Mondadori,- oltre a quelle del Museo del Risorgimento e della Resistenza non più accessibili..
“ Si avrebbe in tal modo, ebbe a scrivere Settis, un solo Museo della Città, che partendo dalla sua storia comunale giunga al presente attraverso il Risorgimento e la Resistenza; mentre la Donazione Mondadori, coi suoi quadri di Zandomeneghi e Spadini, potrebbe formare il primo nucleo di una collezione d’arte dall’Ottocento al presente, in crescita in caso di nuove acquisizioni o donazioni”.
A novembre, a sostegno dell’ idea avanzata di nuovo, da Stefano Scansani, che la Casa del Mantegna sia destinata alla mostra virtuale permanente dell’opera omnia del suo artefice, un’idea eccellente che tuttora condivido pienamente e qui rilancio, ebbi così a scrivere: “Si potrebbe estendere tale ideazione – oltre che alla Celeste galleria ducale virtualizzata-, anche al San Sebastiano per l’opera e la fortuna dell’Alberti, mediante un impianto scenico di proiezioni e prospezioni in cui siano coinvolti i modellini lignei che vi sono la giacenza della fortunata mostra “Leon Battista Alberti e l’architettura”. La fantasmagoria rigorosa dell’allestimento potrebbe assicurare il buon esito dell’ordinaria apertura al pubblico del tempio. Lo stesso discorso potrebbe valere anche per il Museo della Città di Mantova, la cui sublime raffinatezza espositiva è incontestabile, ma a mio avviso non è ciò che vorrebbero ritrovarvi i suoi visitatori potenziali, che in un museo della Città -o in una sistemazione attigua, complementare a quella sussistente- forse amerebbero prima di tutto vedere esibite le mappe e le carte del passato di Mantova e provincia, e rinvenire le ricostruzioni virtuali e le immagini d’epoca, o artistiche, dei mutamenti del volto architettonico e urbanistico della nostra città, quanto del paesaggio dei territori con cui essa è stata in relazione, non che raffigurazioni delle varie arti e mestieri e delle mode e degli stili di vita che vi si sono succeduti, dalle più remote origini sino a tutto il Novecento, un lavoro di equipe che può essere svolto in collaborazione con le più varie istituzioni culturali e scolastiche di città e provincia.”
Ho così prefigurato un ampliamento ulteriore della offerta espositiva del Museo della città di Mantova , che tuttora reputo pienamente valido , e che può trovare spazio, appunto, nell’ex convento e caserma di San Sebastiano, insieme a mostre temporanee, centri di documentazione, ambienti di accoglienza e di ristoro, cantieri e laboratori di ricerca e di progettazione, imperniati sulle criticità e sul futuro della città e dei suoi territori- , che ne avvalorerebbero innanzitutto economicamente il riuso come sistema museale integrato, nella misura in cui le risorse disponibili lo consentano progressivamente.