Una lettera dalla zona terremotata del basso mantovano (presa dalla Gazzetta di Mantova di oggi): "Quella casa ormai perduta, sembra dormire intatta, ma è morta del tutto. Portandosi via un pezzo di vita".
Due settimane dal terremoto. Non mi sembra vero. Mi alzo la mattina e non so come muovermi, arriva sera ed io mi chiedo «Che cosa ho fatto oggi?». Praticamente cerco di riorganizzarmi, ma tutto ...è così? complicato. Guardo la mia casa, immobile, ferma dove l'hanno lasciata 30 secondi di inferno, sradicandola dalle sue fondamenta, facendola ruotare e perdere ogni stabilità strutturale. Vista così, con i suoi gerani sul balcone, le finestre ancora socchiuse, sembra più dormire che morta del tutto. Le crepe si vedono appena, per la pendenza sul fianco ci vuole l'occhio clinico, ma dentro è tutta una rovina. Mobili, vestiti, libri, fotografie, segni di una vita coperti da polvere e calcinacci, irrecuperabili perché la staticità compromessa della casa non permette di entrare, solo l'intervento generoso di alcuni vigili del fuoco attrezzati ha permesso di portare fuori documenti, medicine, oggetti di prima necessità. Comunque sono una sfollata “fortunata”, mio figlio ha ospitato noi genitori e suo fratello nel suo appartamento, anche se dormire al secondo piano è come “non dormire”, ad ogni vibrazione siamo già lungo le scale. Riusciamo a lavarci e mangiare, ed è già molto, ma di notte è tutt'altra cosa, il sonno è fatto da mille passacör, da quell'entrare ed uscire dai sogni per cui, al mattino, la mente è più stanca della sera precedente. Sono arrivati gli inviti a pranzo, il classico «chiedi se hai bisogno», ma devo cominciare a riorganizzare la mia vita, e posso farlo ripartendo dalla quotidianità: al mattino vado a prendere il giornale, lo leggo, poi vado a fare la spesa, comprando qualcosa da mangiare e qualcosa per il bagno, anche se non so bene cosa mi serve, lo faccio per mantenermi allenata. Ora sono tornata al lavoro. Ma il pensiero fisso è su quella casa, in cui ho cresciuto i miei figli e nella quale conservo parte della mia vita: i libri su cui ho studiato e quelli che ho semplicemente letto, le fotografie dei battesimi, delle comunioni, degli anni scolastici, il presepe smontato in soffitta, le scatole dei lego, le cassette registrate, i mobili scelti ed acquistati nel tempo. Come si torna a vivere? Come ci si lascia alle spalle tutta una serie di consuetudini per cercare un nuovo ambiente domestico, ove riunire la famiglia, ove sentirsi protetti, circondati da mura sicure? Per capire a fondo un evento così doloroso, bisogna subirlo sulla propria pelle: se uno si schiaccia un dito, soffre per quello e non per la testa rotta del vicino. Così per un terremoto: ero solidale con chi lo subiva, mi dispiaceva tanto, inviavo un'offerta, ma la sera dormivo nel mio letto, e i miei figli nella stanza accanto. Adesso anche noi sappiamo cos'è la paura e com'è difficile ripartire, facendo finta di non avere amato quelle stanze, di non avere speso anni di stipendi per sistemare tetti, finestre, rifare un bagno. La mia fede mi porta a dire ''Poteva andare peggio, siamo vivi'', ma la mia parte emotiva mi porta invece ad adirarmi, perché lo Stato dovrebbe fare tante meno chiacchiere e tanti più fatti, ed in tempi rapidi, perché non tutti i Comuni dovrebbero dichiararsi “zona terremotata”, togliendo risorse a chi ne ha bisogno e diritto, perché la stampa dovrebbe rilevare e dare risalto ai punti critici che colpiscono direttamente le persone, perché mi sento sola e confusa e vorrei poter tornare a casa mia. (Una cittadina di Quistello).
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