Odorico Bergamaschi
giovedì 28 novembre 2019
Al voto? ( risale al'agosto 2019)
Odorico Bergamaschi
Arte e Desiderio
il botto di Capodanno
Odorico Bergamaschi.
Mantova hub e il rabbinato internazionale
Odorico Bergamaschi
Sul fenomeno Greta
Odorico Bergamaschi
Esclusivi ed escludenti
Odorico Bergamaschi
domenica 14 luglio 2019
CAROLA RACKETE
a smentita delle critiche di Lorenzo Sgarbi al suo editoriale del 30 giugno ribadisco le ragioni che lei vi ha espresso, come di Franco Reggiani e di Claudio Morselli che già sono intervenuti in materia. Carola Rackete è giustamente libera e benemerita, per niente affatto una fuorilegge, in quanto ha dato pieno adempimento alla legge fondamentale del nostro stato, la Costituzione, alla legge di ogni nostra legge che all’ articolo 10 recita espressamente :“L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici”. E gli accordi internazionali cui si fa menzione restano tuttora quelli di Dublino, almeno fintantoché, al pari di Salvini Matteo, si sabota il loro cambiamento già deciso dal Parlamento europeo nel 2017, per cui lo sbarco di migranti avverrebbe non più su coste spagnole, italiche, o maltesi, ma europee, e sarebbe assunto in proprio da guardie costiere europee.. Ne consegue ineludibilmente che fuori della Costituzione e dei fuorilegge sono invece coloro che a Carola Rackete si sono opposti, e tanto più se minano l’autonomia del potere giudiziario, emettendo, anticipando sentenze, minacciando pretori e giudici delle indagini preliminari che alla Costituzione si sono dimostrati ossequienti, come ha ben detto con fondato timore in un suo intervento in contemporanea Romano Vincenzi. Va inoltre respinta al mittente con infamia l’accusa ipocrita che siano le Ong o chi dà soccorso ai migranti i complici dei trafficanti di esseri umani, criminalizzandoli come chi avesse soccorso gli ebrei in fuga per mare dal nazismo, o che fossero perseguitati e messi al bando dalle leggi razziali nazifasciste. Del resto nessuna prova è stata raccolta che suffraghi una collusione tra scafisti e Ong, nessuna coincidenza è stata appurata tra aumento delle partenze e aumento della presenza delle Ong, quale fattore attrattivo. Collaborazionisti dei trafficanti, per giunta negazionisti, sono invece quanti al governo libico seguitano a inviare motovedette e altre forme di aiuto, poiché la presunta guardia costiera libica per lo più non è che un travestimento degli stessi trafficanti, o con loro è in combutta, e riconsegna ad essi i migranti perché fuori o dentro i lager libici possano essere di nuovo torturati, stuprati, ricattati presso le loro famiglie per ottenere i soldi di un’ ulteriore falsa partenza. E’ proprio il respingimento illegittimo, diretto o per mancato soccorso, in una Libia che è area di guerra, che cospira con tale forma di riciclaggio di esseri umani . La testimonianza del somalo Salim Karaafe riportata dalla Gazzetta è che più eloquente in tal senso, ad avere occhi che vogliono vedere, orecchie che vogliono sentire, cuore e ragione che vogliono intendere, anziché inferocirsi in un vittimismo autogiustificatorio che ci rende spregevoli agli occhi del mondo, ove sono paesi tra i più poveri come l’Uganda, di rifugiati ad averne da soccorrere almeno 1,2 milioni, non come noi poco più di 3.000 dall’ inizio dell’anno, solo un decimo dei quali è stato salvato dalle Ong.
Odorico Bergamaschi
I cavalli di Giulio Riscrittura
Siamo oramai a metà del guado dell’anno che in Mantova si è dedicato a Giulio Romano, e mentre sono già in libreria le pubblicazioni sull’artista di un po’ tutti i nostri storici d’arte, vuoi l’Occaso, vuoi Braglia, vuoi Girondi, va in crescendo il rullare dei tamburi e lo squillare delle trombe della sua celebrazione più ufficiale e autorevole in Palazzo Ducale e di quella più enfatico propagandistica dislocata nel Palazzo Te, vuoi convertendo sovranisticamente Giulio Romano in un Giulio Mantovano , vuoi acchiappando turisti in virtù di una mostra concepita alla luce di un’idea tutta orgasmica di arte e desiderio, di un Giulio Romano che più sexy di così non lo si può scovare. Dunque ben vengano, vivaddio, a riequilibrio di un celebrativismo negato finanche a Leonardo nel concomitante Cinquecentenario della sua morte, le stroncanti paginette su Giulio Romano scritte di recente da Antonio Moresco,nel suo incantevole libretto “ La mia città”, edita da “Nottetempo”, in sana controtendenza come è inevitabile che sia per chi è davvero scrittore e critico. Ma che asserisce mai il nostro Moresco di davvero terribile su Giulio Romano? Tutto le sfumature di male possibile, direi, nel breve spazio di quattro deliziose paginette: che il nostro Giulio fu “ un ottuso e arrogante allievo di Raffaello, venditore di fumo tardo rinascimentale”, colpevole, a suo dire, di avere “riempito tutta la città di Mantova dei suoi bugnati del cazzo”, un po’ come l’ imbarbimento dell’imbarbarimento attuale, mi vien da soggiungere, il resto di Moresco ancor più in discesa libera … A dire il vero, a salvaguardarlo dalla facile rimozione nell’ irrilevanza di chi lo perdoni con l’adagio che egli non è poi uno del mestiere, che ad uno scrittore che sia battitore libero quando è in vena di battutacce si può perdonare anche l’ imperdonabile, sempre che ci diverta ed intrattenga, va ricordato che nella sua denigratio di Giulio Romano il Moresco è in illustre compagnia di storici e critici, quali J. Burckardt o Gould, e che se dai tempi dell’Hartt, ossia dal 1958, non esce nel mondo più alcuna monografia globale su Giulio Romano, neanche per editto, non può essere solo per l’ignavia nei suoi riguardi di noi moderni e contemporanei, mentre resta tutto da dimostrare che non sia vero niente di quel che Moresco ha detto di male di G. Romano. Lasciando ad altri tale compito che non mi intriga per niente, nel salvare almeno il minimo che sia salvabile del Pippi vorrei qui accodarmi a quello che “ delle imbarazzanti diavolerie di Giulio Romano” resta salvabile per lo stesso Moresco. Sarà pur poco, ma è pur sempre una pepita, se è colta con tale acrimoniosa avversione a tutto campo, rispetto a quanto venga rimasticando qualche venerabile maestro, autocelebrandosi nel concelebrare maxima cum exaggeratione Giulio Romano. Quel che Moresco salva del Giulio Romano e del Te, “ con qualche medaglione là in alto, qualche silenziosa barca che scivola nella prima luce sull’acqua…” sono i cavalli, nient’altro che i cavalli dell’omonima sala, ma almeno quelli, che anche a me piacciono tanto, anche se magari sono l’opera di qualche suo allievo. E non solo quelli, che con gli alti fasti delle scuderie gonzaghesche innovano la grandiosità in tema di cavalli della pittura di corte mantovana, dal Pisanello al Mantegna, ma anche i cavalli, e ancor più, della sala di Troia in Palazzo Ducale, che mi dicono ancora di più per come ne è espresso il furore fisico, nelle froge e negli occhi, nell’ imbizzarrirsi dello scalpitio e delle criniere. Li si confronti con le figure umane circostanti, insieme a quelli invece olimpici del Mantegna , e si dica tra umanità adulta e cavallinità a chi va l’empatia dei due artisti di corte, in quale resa dell’ empito agonistico di Teucri e cavalli sia più bravo Giulio Romano, o chi per lui, grandeggiando non solo nel disegno, come sempre, ma pur nel colore della pittura, dove a volgere alla perfezione il nostro “ gigante” latita tanto un suo vero tormento. Perché è in quei cavalli, come nelle acque e nelle linfe sorgenti e scorrenti della sala di Amore e Psiche, nella resa, se è a presa rapida, di satiri priapici e condiscendenti ninfe, della naturalità del mondo istintuale in cui noi rientriamo, tutti quanti , che Giulio Romano rivela il meglio di sé nell’arte raffigurativa. Come dal Leonardo della battaglia di Anghiari, è da tale Giulio Romano che Rubens desunse insieme alle sue ninfe perturbate i suoi magnifici cavalli, e ne è una riprova che benché dipingesse allora in Spagna, risale a un intermezzo dei primi anni del suo soggiorno e apprendistato in Mantova , nel 1603, lo stupendo suo ritratto del Duca di Lerma e del suo cavallo, in cui l’animale iniettato della stessa ferinità istintuale di quelli di G. Romano nella sala di Troia. Un gran Rubens che ritroveremo nei pittori di genere del Settecento, quali J. Wooton, J. Seymour, G. Stubbs, B.West, , in Th. Gainsbourough, J. Reynolds, in Francia un David, Gericault, Delacroix, poi nello stesso De Chirico.
Odorico Bergamaschi
sabato 29 giugno 2019
I Cavalli di Giulio Romano
Siamo oramai a metà del guado dell’anno che almeno a Mantova si è inteso dedicare a Giulio Romano, e mentre aumentano le pubblicazioni in uscita un po’ di tutti i nostri storici dell’arte, vuoi l’Occaso, Braglia , Girondi, più o meno curate o raffazzonate per l’ occasione, necessitando in vero di tempi più lunghi, va in crescendo il rullare di trombe e lo squillare di tamburi della sua celebrazione enfatico propagandistica, ad opera a di chi intende trarne lucro e lasciti in eredità di ogni sorta , vuoi convertendo sovranisticamente GIulio Romano in un Giulio Mantovano , vuoi (per rinnovare le fortune impenitenti di Federico II) cercando di acchiappare turisti alla luce di un’idea tutta orgasmica di arte e desiderio. Così stando le cose, ben vengano dunque, a riequilibrio di un celebrativismo enfatismo negato finanche a Leonardo nel concomitante Cinquecentenario della sua morte, le stroncanti paginette su Giulio Romano scritte di recente da A. Moresco,nel suo incantevole libretto La mia città edito da nottetempo, in sana controtendenza come è inevitabile che sia, per chi è davvero scrittore e critico. Che dice mai di male su Giulio Romano il nostro? Tutto le sfumature di male possibile, direi, nel breve spazio di neanche tre deliziose paginette: che il nostro Giulio fu “ un ottuso e arrogante allievo di Raffaello, venditore di fumo tardo rinascimentale”, colpevole, a suo dire, di avere “riempito tutta la città di Mantova dei suoi bugnati del cazzo”, un po’ come l imbarbimento dell imbarbarimento attuale, mi vien da soggiungere, che a pensarci bene , aggiungerei io, richiamano tutto l’” imbarbimento” dell’imbarbarimento attuale, il resto di Moresco ancor più in discesa libera… A dire il vero , a salvaguardare Moresco dalla facile rimozione nell’irrilevanza critica, proprio da parte di chi bonariamente lo perdoni con l’adagio che non è poi uno del mestiere, che a uno scrittore che sia battitore libero quando è in vena di dire la sua si può perdonare anche l imperdonabile, sempre che ci diverta ed intrattenga, ci dia insomma un po’ di piacere, va ricordato che nella sua denigratio di Giulio Romano egli è in illustre compagnia di storici e critici, quali J. l Burckardt a C. Gould, e che se dai tempi dell Hartt, il 1958, non esce nel mondo più alcuna monografia globale su Giulio Romano,neanche per editto, non può essere solo per l’ignavia nei suoi riguardi di noi moderni e contemporanei, mentre resta tutto da dimostrare, che cosa non sia vero niente di quel che Moresco ha detto di male di G. Romano.. Lasciando ad altri tale compito ingrato, nel salvare almeno il minimo che sia salvabile del Pippi, vorrei qui accodarmi a quel che “ delle imbarazzanti diavolerie di Giulio Romano” resta salvabile per lo stesso Moresco. Sarà pur poco, ma è pur sempre una pepita,se colta pur con tale acrimoniosa avversione a tutto campo, rispetto a quanto venga rimasticando qualche venerabile maestro, autocelebrandosi nel concelebrare maxima cum exaggeratione Giulio Romano. Concelebrandosi esageratamente con Giulio Romano.
Quel che Moresco salva del Giulio Romano, del Te, “ con qualche medaglione là in alto, qualche silenziosa barca che scivola nella prima luce sull’acqua…” sono i cavalli, nient’altro che i cavalli dell omonima sala, ma almeno quelli, che anche a me piacciono tanto. E non solo quelli, che rinnovano gli alti fasti in tema della pittura di corte mantovana, dal Pisanello al Mantegna, ma anche quelli , e ancor più quelli, mi piacciono, della sala di Troia in Palazzo Ducale, che mi dicono molto, di più, per come ne è espresso il furore fisico nelle froge e negli occhi, nell imbizzarrirsi dello scalpitio e delle criniere..Li si confronti insieme a quelli invece olimpici del Mantegna con le figure umane circostanti, e si dica tra umanità adulta ed equinitas a chi vanno le simpatie dei due, in quale resa dell’ empito agonistico di Teucri e Cavalli sia più bravo Giulio Romano, e non solo nel disegno, come sempre, ma pur nel colore e nella pittura, dove a volgerlo alla perfezione latita tanto un suo vero tormento. Perché è in quei cavalli, come nelle acque e linfe sorgenti e scorrenti della sala di Amore e Psiche, nella resa, se è a presa rapida, di satiri priapici e condiscendenti ninfe, della naturalità del mondo istintuale in cui rientriamo noi tutti quanti, che Giulio romano rivela il meglio di sé nell’arte raffigurativa. Come dal Leonardo della battaglia di Anghiari, da tale Giulio Romano insieme alle sue ninfe perturbate desunse Rubens i cavalli dei suoi magnifici dipinti equestri, e ne è una riprova che benché dipingesse allora in Spagna, ai primi anni del suo soggiorno in Mantova risale nel 1603 lo stupendo suo ritratto del Duca di Lerma e del suo cavallo, iniettato della stessa ferinità istintuale di quelli di G. Romano nella sala di Troia. Un gran Rubens che ritroveremo in Gericault, Delacroix, nello stesso De Chirico.
Per meno di una settimana, ancora, a integrazione della rassegna di Giulio Girondi “Architettura ed incisione negli anni di Giulio Romano”, in via di chiusura negli stessi giorni, nella sala rossa del Museo Diocesano resterà ugualmente esposta una preziosa silloge , integrativa, di disegni esemplificativi di come “ Per tutta la Lombardia giovò di maniera “ Giulio Romano, ( per “Lombardia” dovendo intendersi l’ Italia settentrionale ), curata sempre da G. Girondi, da Michele Danieli e Stefano l’Occaso, pur essa con un proprio catalogo edito dalla casa editrice il Rio di G. Girondi. Segnalo tale esposizione perché è un campione di ricerca plurima locale, non già una delega fiduciaria di grande mostre ad allestitori esterni, e altresì per il valore e la significatività di alcuni dei disegni esposti, alquanto eterogenei tra loro e, dispiace dirlo, senza il supporto di pannelli che riprendano le note del catalogo. Fra di essi primeggiano per grido autoriale due sanguigne del Parmigianino, che costituiscono due suoi studi di anziani di grande vigoria espressiva, nell’intensità della concentrazione di sguardo e nella muscolatura michelangiolesca, espostevi fors’ anche a risarcimento del fatto che G. Romano sia subentrato al Parmigianino negli affreschi di S. Maria della Steccata in Parma .Ma per la qualità e la libertà del disegno eccelle in assoluto una Sacra famiglia con S. Giovannino di Luca Cambiaso, che grandeggiò nella Genova dove di G. Romano fece scuola La lapidazione di Santo Stefano. Con il minimo possibile dei tratti di inchiostro bruno il Cambiaso esprime nel suo disegno a penna tutto l’intenerirsi reciproco della Madonna e del Bambino e di San Giovanni per il suo agnellino, in disparte un San Giuseppe cogitabondo .Dei tre disegni attribuibili o riconducibili più direttamente a Giulio Romano, si lascia di gran lunga preferire quello che inscena l’ammazzamento di un toro, per le linee di forza dell’abbattimento e quelle di prostrazione remissiva che profilano le due figure contrapposte dell’uomo necans, che uccide, e del toro abbattuto. Il disegno di un cacciatore che infierisce con il bastone su di un suo vecchio cane vale in particolare per la reattività risentita dell’animale, e pare che prefiguri una delle fabulazioni dell’appartamento del giardino segreto di Palazzo Te.
Restano ancora, a completare l’ insieme, un disegno progettuale incentrato su Sant’Andrea in Mantova di Pompeo Pedemonte, già oggetto di uno studio breve di G. Girondi , il cui rendering lascia supporre che la fabbrica del tempio albertiano prevedesse un vestibolo anche su Piazza delle Erbe, e può fare intendere quale fosse la cupola più affine agli intenti albertiani, già espressi a suo tempo per il tempio malatestiano di Rimini, inoltre un bel disegno imperioso di Giovanni Battista Bertani che rappresenta un Ercole per apparati scenici campeggiante in una postura di grande possanza, nonché una copia o un originale di una Resurrezione di Bernardino o Gatti il Sojaro, formatosi sulla pittura mantovana di G. Romano. In esso più che il sentimento devozionale può l’ impertinenza della composizione, vuoi per il Cristo che sembra ascendere in gloria al culmine della disposizione acrobatica dei suoi vigilanti, vuoi per le impugnature e i sottinsù esibizionistici di costoro. Un dato non peregrino, quello della licenziosità d’artista nei tratti privati dei propri disegni: valga per tutti, “modi” di G. Romano inclusi, il meraviglioso studio di Rubens per il Battesimo di Gesù che figurava nella Chiesa della Trinità di Mantova. A latere sono esposte anche tracce documentarie e bibliografiche delle committenze ecclesiastiche per Giulio Romano della Diocesi di Mantova, con un pregevole opuscolo illustrativo.
Bella ciao
n tempi di regimi reazionari di massa , per dirla con Palmiro Togliatti, in cui il fascismo è un’insidia che può insediarsi in un modo e nell’altro in ognuno di noi, nei fascisti nero catrame come in chi si presume uno dei Weird, western, educated, industrialized, rich and democratic men , e non vuole fare i conti con la ricolonizzazione planetaria e l’evidenza sempre più inconfutabile dell’anima schiavista perenne della democrazia occidentale , per cui la difesa sovranista dei diritti del cittadino è in conflitto più che mai con quella dei diritti dell’ uomo, è l’ora cred’io di un antifascismo sempre più consapevole e critico, che ribadisca i propri miti fondanti nel rispetto della realtà storica e dell’intelligenza pensante. Per essere semplice e chiaro, occorre ribadire la propria opposizione e resistenza ad ogni fascismo, come a ogni totalitarismo comunista, perché il fascismo nella sua ispirazione ideologica e nella sua costituzione materiale, nonché in ciò che di catastrofico e abominevole ne è conseguito, resta assolutamente inammissibile nonostante quello che di buono può aver fatto, non già perché non può avere fatto niente di buono, e niente di buono può essere accaduto nel ventennio fascista. Il regime fascista non era un regno metafisico del male in cui ogni strada che venisse asfalta si sbriciolava subito, ogni ponte che si fosse costruito cadeva all’istante, ogni condominio dell’epoca collassava su se stesso come ci si metteva piede dentro, o non c’era raccolta del grano che non finisse in marcescenza. Il che non toglie che restino fake news gli 8 milioni di ettari bonificati delle Paludi pontine,- furono non più di 500.000, pare-, o che le pensioni siano state istituite dal duce, quando risalgono ai governi liberali di destra Crispi-Pelloux-Orlando. Ciò detto, la Resistenza va difesa e ed esaltata come grande processo di liberazione e di riscatto nazionale di un intero popolo , magnificando più di ogni altro chi vi ha fatto dono della sua vita per la salvezza di quella altrui, senza negarne per questo gli orrori che ha perpetrato , quali l’assassinio dei fratelli Govoni e del giovane seminarista Rolando Rivi, o ricusare che nelle foibe siano finiti anche italiani che non erano fascisti. In realtà si tratta di revisionismi che erano divenuti ovvi già negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, in ogni ambito maturo storico- artistico, di ricerca e di pensiero, ma tant’è. Come ho ricordato ai miei amici in face book , mio padre, ad esempio , che in vita fu uomo pavido e resistentissimo, senza essere mai stato né mai diventare poi di sinistra, in questo a differenza di me, eppure si fece partigiano per mera umanità nei Volontari della libertà, come per mera umanità aderirono alla Resistenza tantissimi italiani, perché egli disertò per non essere complice degli orrori perpetrati dall’esercito fascista di stanza nella penisola balcanica., e per questo rischiò la fucilazione. Ma la Resistenza non si può depoliticizzarla o sbiancarla, come vorrebbe un certo revisionismo di regime che risale allo stesso renzismo rottamatore, cogliendo la palla al balzo delle semplificazione inaccettabili di Matteo Salvini, che ha presunto di ridurla a derby tra le tifoserie di fascismo e comunismo. I comunisti ed i socialisti nella Resistenza ebbero un ruolo propulsivo e organizzativo fondamentale, non esclusivo, e l’anima non insurrezionale del Pci ne ha garantito lo sbocco nell’alveo democratico, o ve lo ha confinato, a seconda dei punti di vista. Comunque sia trovo inammissibile e inaccettabile, in sé gravissimo, una forma di acquiescenza e di condiscendenza che è già un cedimento, che non si possa cantare in una qualsiasi cerimonia pubblica Bella Ciao, in quanto che, ci si giustifica, sarebbe divisiva. Bella Ciao nasce come canto del lavoro ed è oramai cantata in tutto il mondo, e gli unici riferimenti politici che vi ricorrono sono all’ invasore – nazista, e non specificato- e alla libertà. Personalmente l’ ho cantata pubblicamente solo una volta, e fu in Iran, su richiesta ineludibile di un gruppo giovani che si erano ritrovati in auto di notte lassù in montagna, senza finalità cospirative ma pur di sentirsi, solo lassù, liberi dal regime di oppressione degli ayatollah. E seguito a trovare intollerabile che altre etnie, come i sik indiani, nelle loro cerimonie religiose assolutamente pacifiche possano sfilare in città solo in periferia.
Odorico Bergamaschi
In Risposta al professor Carpeggiani
Signor Direttore,
L’intervento del professor Carpeggiani, apparso sulla Voce di Mantova di **, contro ogni indebita censura della mostra di Nitsch e dell’operato di Assman, mi sembra sia desunto da una storia dell’arte di un ammirevole candore, che in sapidi esempi ce la presenta come se si sia stata solo una sempre più veridica rappresentazione del reale, e non già, soprattutto nelle sue compromissioni con il sacro, anche una triste antenata e consorella degli orrori che inscena Nitcsh, in determinate messe in scena ed attuazioni di ciò che evochi, sia ciò di natura angelica o demoniaca, soprattutto attraverso il canto, la danza ed il teatro, i generi in cui rientrano a pieno titolo le installazioni di Nitsch . O vogliamo dimenticare che i braghettonatori michelangioleschi erano gli stessi che richiedevano le voci bianche di cantori evirati , così care ancora per Stravinskij, o che l’arte splendida di Usto Momin è decantazione della prassi centroasaiatica dei bacha baza, come la danza Orissi lo è del gotipua di acrobatici ragazzi piegati a ogni pratica ? Ho fatto esempi anche esterni all’arte occidentale, o di commistioni, perché in tempi di globalizzazione e di multimedialità, quando diventa possibile rappresentare ed inscenare di tutto con tutti i mezzi, anche i più sanguinari, o solo apparentemente innocenti, e si dà una mescidanza straordinaria di tradizioni e culture, siamo davvero noi tutti sotto gli occhi di tutti, ed è ancor più nostro dovere riaffermare determinati principi inviolabili per ogni forma d’ arte e di sacralità , quali gli articoli dell’Unesco che vietano ad ogni espressione artistica e religiosa il ricorso alla violenza ed all’offesa del corpo umano e animale, sia nella sua fisicità che dignità. Il professor Carpeggiani può ben convenire , del resto, che se la mostra di Nitsch è ben altro che ciò che si paventava, e se la rispettabilità di tutti è salva, lo si deve non solo alla condotta tutt’altro che rettilinea di Assmann, ma allo stesso dibattito accesosi sulle colonne locali in merito al suo allestimento, in cui davvero si è mescolato di tutto, di alto e di basso respiro. Comunque sia ben venga, alla buon’ora, nel suo elevato tenore, tale intervento del professor Carpeggiani, che è quanto di più ben accetto per i suoi strali appuntati contro ciò che soggiace a certi umori ostili alla mostra e ad Assmann, che sono ben di peggio che provincialismi , personalmente li direi forme di sovranismo culturale localistico, all’ insegna dell”’arte di Mantova ai mantovani”, in cui riecheggia lo slogan “Il palazzo Te ai mantovani” che si è udito questo estate in un augusto consesso. Tali stantii localismi sono il grido di dolore di un passatismo conservatore che si anima e si sente parte in causa solo contro tutto ciò che di moderno subentri in città, al cui coro va pur detto che è giocoforza unirsi se si vuole dire la propria di segno opposto, come è ora per Nitsch , per difendere i principi universali che pongono come inviolabile la dignità e la vita di ogni animale in qualsiasi opera d’arte, e come è stato già per la vasca battesimale in Sant’Andrea, che in sé non era certo inconcepibile architettonicamente, e tanto meno un tradimento dello spirito albertiano, ma che in tempi di interreligiosita culturale era improponibile perché vi si intendevano celebrare battesimi di apostasia. Invece mai che la voce di tali vestali si faccia sentire, quando si oltraggi o anche già nella destinazione d’uso si degradi ciò che è opera dell’architettura contemporanea, o quando la modernità è pseudo tale, e invece di sacrificare la decorazione per la funzionalità pratica è pura appariscenza propagandistica a discapito e incomodo di chi ha meno voce in capitolo ( vedasi il nostro decoro urbano alla voce city bin, per non dire dei microautobus bisdruccioli circolari del centro città), o quando la modernità anziché corrispondere a necessità sentite e condivise è ghiribizzo o uzzolo di corte di qualche nuovo Principe Duca ( vedasi il restyling originario di piazza L. B. Alberti). E solo i soliti noti si fanno sentire, quando la modernità anziché attualizzare il passato nelle concrezioni storiche da esso assunte, secondo il suo spirito più profondo, storicista, lo tradisce ed assimila d omogeneizza il passato alla propria fashion, operando il degrado commerciale ad attrattiva turistica del patrimonio storico artistico e ambientale. Così non una lamentazione o petizione da parte dei nostri storici e critici d’arte, o architetti e designer, contro gli oltraggi arrecati dall’insediamento della Progest alla massima espressione della modernità in Mantova, le cartiere Burgo. Ed invece, come nel suo intervento in questione lo stesso professor Carpeggiani, consentono appieno che si usi piazza Sordello e il Ducale od il Te per ogni sorta di evento, alla faccia della necessaria specificity, degradandoli a contenitore buono a ogni uso, in nome dell’interesse del nostro solo popolo grasso, che non è di certo quello del commercio e del popolo minuto, e del capitale umano di intelligenze e capacità che ugualmente sempre più faticaa restare insediato in città, o niente obiettano a che la zona Ztl la si destini a mostrificio dato in appalto a questa o a quell’Electa, nei profitti che a nostre spese genera ad altri. Nel loro silenzio assenso sembra che a tutti quanti costoro vada pure benissimo che si sia ritinteggiata la città tutta negli stessi toni di colore fantasmatici, Palazzo Te come Sant’Andrea o Palazzo d’Arco, in omaggio alla fashion decolorata che per turisticizzarla si è voluto imperante nella nostra città , al fine di renderla indistinguibile da ogni altra città d’arte occidentale e in ogni suo stile , pur di compiacere il desiderio dei suoi visitatori di ritrovarsi, ovunque siano essi nel mondo, fuori del mondo reale sullo stesso set, inautentico e falso, dello stesso non luogo che propina ovunque il turismo di massa. E tanto di guadagnato se così si attraggono i turisti a godersi il falso unicum dei falsi amanti di Valdaro, a scapito di ogni altro reperto e manufatto del nostro Museo Archeologico Nazionale, anche se per questo un nostro splendido Museo archeologico territoriale lo si è adulterato in un Museo archeologico fittizio della città di Mantova , ora annesso al Ducale di Assmann . Si tratta di un riallestimento che per elevare Mantua al rango che non aveva ai tempi di Roma, ne ha disconosciuto l’ origine etrusca e i legami in ciò con il Forcello,riconducendo ad essa suppellettili rinvenuti nell’agro modenese e nelle ville romane urbane, ben più di Mantova allora avanzate. E’ un misfatto di cui Assman che il professor Carpeggiani porta al settimo cielo, nel riceverlo in eredità, per annessione, sembra che neanche abbia avuto sentore, altrimenti affaccendato a promuovere e propagandare artisti che 8 su 10 dieci, o giù di lì, erano di area doc austro-bavarese .
A cura di Giulio Girondi nella sala rossa del Museo Diocesano è ora allestita una mostra “di ricerca” di notevole interesse, su Architettura e incisione negli anni di Giulio Romano, che vi resterà esposta fino al 9 giugno. A coronamento di più di un decennio di studi in argomento, G. Girondi vi mette a frutto le sue competenze di architetto per ricostruire come gli incisori in rame del Cinquecento, particolarmente quelli operanti in Mantova, Giovan Battista Scultori, i figli Adamo e Diana, Giorgio Ghisi più grande di ogni altro, avvalendosi soprattutto di disegni in cui G.Romano espresse il suo genio architettonico, nel tradurre opere altrui divulgarono ciò che dell’arte antica greco romana sussisteva in forme di rovine, o negli edifici o nei trattati d’epoca veniva riproposto come nuova arte edificatoria. A inizio d’esposizione Girondi riprende la sua indagine antecedente, già consegnata a due suoi libri editi dalla Sometti, ( L’ immaginario architettonico nell’ incisione mantovana del ‘500, Architettura e incisione nel ‘500), su quanto tali incisori, tradendo o assecondando le quinte architettoniche delle opere che traducevano nel loro immaginario architettonico, mostrarono di intendere i problemi costruttivi e spaziali che vi soggiacevano compiuti od irrisolti, incentrando egli tale sua ricerca soprattutto su quanto siano essi riusciti a far tesoro delle eventuali competenze dei disegnatori da cui traevano le loro opere, in particolare quando costoro erano altresì architetti come Raffaello o G. Romano o Giovan Battista Bertani . Così verifichiamo la pedissequità con cui Diana Scultori preservò le incongruenze che già nel disegno originario di Baccio Bandinelli rendevano assurdo l’ edificio da cui’ imperatore Decio assiste al martirio di San Lorenzo, o il rialzo prospettico apportato dal fratello Adamo Scultori alle quinte del Cristo alla colonna michelangiolesco di Sebastiano dal Piombo, che allargando il quadrangolo sul sito della flagellazione comunque ne conserva la verosimiglianza architettonica. Quindi, procedendo oltre gli esiti dei suoi studi antecedenti, Girondi evidenzia come l’opera degli incisori abbia divulgato la ripresa nei trattati e negli scritti d’arte dell’epoca, fossero quelli del Serlio o di Giorgio Vasari, dei discorsi di Vitruvio sull’origine e gli stili e stilemi dell’arte antica, che ne derivano gli edifici da caverne, capanne o edifici lignei d’altra sorta, se non dallo stesso fare nido degli uccelli, (una genealogia che ha tra l’altro profonde corrispondenze nei templi dell’arte hindu,che volsero in pietra le loro origini lignee), vedansi le capanne dell’incisione L’ inganno di Sinone del Ghisi. Come a suo tempo colse già il Vasari si deve agli incisore in rame se un largo pubblico, fatto soprattutto di europei “oltramontani”, che non potevano “andare in quei luoghi dove sono l’opere principali”, venne a conoscenza dell’arte del Rinascimento e degli stili classici che vi erano ripresi. Girondi presceglie l’illustrazione grafica degli stilemi desunti dall’arte antica che in Mantova rinacquero o fecero epoca, a iniziare dalla travata ritmica del Sant’Andrea dell’Alberti, - un ‘arcata lunga, una breve- che verrà ripresa dal Bramante nelle Logge del Belvedere, e che fa da sfondo nell’ incisione dei Gladiatori in lotta del Maestro del Dado , forse desunta da un soggetto dello stesso G. Romano, ed in quella della Strage degli innocenti di Marco Dente, uno degli allievi più dotati di Marcantonio Raimondi, l’incisore stesso dei modi erotici desunti da disegni privati di G. Romano, a commento visivo di sonetti di Pietro Aretino che descrivono vari possibili accoppiamenti sessuali . Ulteriori forme architettoniche classiche che furono invece riprese da G. Romano in Mantova e ivi divulgate da G. Ghisi, nell’ incisione del Corteo dei prigionieri che trasse dai cartoni degli arazzi giulieschi del Trionfo di Scipione, commissionati da Francesco I di Francia e risalenti al 1532, sono l’arco a un solo fornice che compare in Mantova nel fregio della Camera degli stucchi di Palazzo Te, e che è presente pure nel dipinto di G. Romano che ha come soggetto Il Trionfo di Tito e Vespasiano, ora al Louvre, e il portico con colonnato corinzio sullo sfondo di paraste corrispettive e di nicchie, che oltreché nell’incisione e nell’arazzo considerati, ricorre pure nel vestibolo di Palazzo Te, quale sviluppo architettonico reale, ad opera sempre di G. Romano, della riflessione di Vitruvio sull’atrio all’antica. Girondi considera altresì la fortuna incisoria del motivo delle colonne tortili che si attribuivano al tempio di Salomone, inteso ad ebraicizzare gli interni della rappresentazione figurativa in cui appaiono, un tipo di colonne che così grande rilievo ha nell’opera pittorica e architettonica di G. Romano, si pensi solo alla tela della Circoncisione al Louvre o all’affresco della Donazione di Costantino nelle stanze di Raffaello e aiuti in Vaticano, al Palazzo della Rustica, alla camera di Psiche oppure al giardino segreto in Mantova, e che ritroveremo secondo la lezione di G. Romano a fare da sfondo ai “Gonzaga in adorazione della Trinità” di Rubens, come già nella sua Sant Elena venerante la Croce ritrovata. Le colonne tortili ricorrono nell’incisione in rame in cui Diana Scultori inscena Cristo e l’adultera, dove fanno da portico ad un altro tipo di edificio desunto dalla classicità, e così divulgato incisoriamente , il tempietto circolare in guisa di tholos, come lo è il San Pietro in Montorio di Bramante, e come lo si ritrova in un disegno preparatorio, a cui collaborò G. Romano, dell’arazzo raffaellesco di San Paolo nell’Aeropago. In altre tre sezioni intermedie si esemplifica come degli incisori quali Ghisi desunsero da opere anche di G. Romano le rappresentazioni di interni, per lo più in scene d’alcova degli amori degli dei dell’Olimpo. In esse l’architettura si riduce ad essere quella delle modanature e del baldacchino del letto coniugale,- eccezion fatta per le incisioni dei Modi di Marcantonio Raimondi, dove figurano le stanze d’alcova. Si illustra ulteriormente come furono tradotte in incisioni quinte di paesaggi e vedute urbane dello stesso G. Romano o del Bertani; si tratta soprattutto di bastioni e fortezze, le incisioni essendo desunte da soggetti quali I greci entrano in Troia o La Presa di Cartagine, nel cui disegno originale lo stesso G. Romano rifuggì da ogni ordinamento urbanistico. Splendida è in particolare la incisione di G. Ghisi del Giudizio di Paride, più ancora che per il tempietto di Giove ionico che vi figura in alto, conforme ai precetti del Bertani, per il paesaggio fiammingo che vi aggiunse di suo, grazie al suo apprendistato in Anversa alla scuola di H. Cock, in cui il suo talento si sprigiona dalle pastoie di quinte che fossero solo architettoniche. Tutto questo, nel breve spazio di una mostra con prezioso catalogo che sta in una sola sala, dove non sono più di una quindicina le opere grafiche esposte, per dire quanto una mostra può essere ricca e illuminante per ristretta ma non piccola che sia, se è frutto di studio e ricerca su sudate carte. Essa ha il pregio ulteriore di indurci a nuovi indagini affascinanti, se si è mossi da interrogativi analoghi a quelli che su incisioni e immaginario architettonico si è posto Giulio Girondi, sollevandoli, invece, quanto a dipinti e affreschi della Reggia di Mantova, che già in se tracciano il percorso di una grande mostra possibile : qual è, così chiedendosi, la dignità e valenza architettonica delle mirabilia urbane della Estrangore o della Camelot di Pisanello, della Roma ideale del Mantegna, delle quinte di edifici degli Atti degli Apostoli negli arazzi di Raffaello, delle imprese dei Gonzaga del Tintoretto, o delle colonne tortili, che già furono giuliesche, nella pala I Gonzaga in adorazione della Trinità, di Rubens, anch’egli futuro grande architetto, come lo fu in assoluto G. Romano, ed in buona misura lo fu il Mantegna.
Pradella si fa bella?
Signor direttore
Il restyling di corso Pradella è in effetti un'opera pubblica di gran pregio, di cui va dato pieno merito e reso grazie all’Amministrazione Palazzi , il fondo stradale del corso andava assolutamente rifatto e non c’era modo d’attendere. Cionondimeno l’intervento per certi versi suscita sconcerto, evidenziando scompensi cui si sarebbe potuto agevolmente ovviare, solo che la sua progettazione fosse stata anche solo un ci(n)cinino o uno zinzillino realmente condivisa, facendo davvero proprie le valide ragioni altrui. Trova la mia piena condivisione Alberto Gazzoli. nei pochi cenni in merito del suo editoriale domenicale del 7 aprile scorso che è apparso su queste colonne. Nelle variazione fashion di soli toni grigi della sua pavimentazione, ora corso Pradella pare in entrata il viale d'ingresso alla città dei morti, verso l’ uscita quello d'avviamento al cimitero degli Angeli. Vi è raffermo il rigor mortis del decoro turistico e dei suoi daspo. Quasi una sorta di beffa, per il vitalismo di tanta profusione di giovanilismo in materia. Bastava all’uopo differenziare la corsia ciclabile rispetto alle altre, con un colore delle pietre di fondo che la rimarcasse bene, evidenziando in tal modo che non era uno scampolo di marciapiede o del manto stradale veicolare, al pari di svariate nostre ciclabili urbane. Ciò avrebbe evitato equivoci tra pedoni e ciclisti e sarebbe valso da efficace persuasore occulto a non sviare, per certi nostri ciclonauti in vena d’ebbrezza. Ripristinare, quali stilisti urbani, il solo variare del grigiore di fondo del porfido un suo senso lo aveva solo se il traffico fosse rimasto vitalmente misto. Ma anziché ricorrere a pietre differenti per le differenti corsie, o a porfido fiammato di diversi colori per differenziare le diverse percorrenze, pedonali, ciclabili, veicolari, che corrispondessero eventualmente ai gialli o ai rossi di certune facciate, ci si è valso di fioriere in finto legno, in realtà di ben duro metallo, che appaiono posticce ed incrementano la cupezza funerea del tutto. Non solo , con i cubi di granito tali fioriere, nella loro materialità ingannevole, possono essere dei dissuasori dall’ impatto devastante. Le panchine, poi, sono irregolarmente intermittenti e per lo più senza schienale. Quelle che lo presentano sono rivolte da esso in certi casi verso il muro, il che, se ti ci siedi, ti fa sentire già dentro il proprio loculo tombale. E poi, esse non vanno usate come spezzoni propagandistici di una propria politica di attenzione ai bisogni di mobilità dei vecchi, quando al di fuori dei giardini se ne trovano ben poche altre, in tutta la città, che non siano il corredo dei plateatici, e quando per latrine e panchine, magari approntandole in un sistema integrato cui fare ricorso anche mediante app comunali , allorché “natura chiami”o invochi una sosta, non si spendono i quattrini che si riservano a illuminotecniche e ad eventi spot, in una città di vecchi la cui amministrazione non vuole saperne che sia tale nelle sue priorità. Quanto ai sabati pedonali è bene che il Sindaco ci pensi su bene e non una volta soltanto, sempre che sia la volta buona che non ascolta soltanto se stesso e i suoi fidelizzati , e che nel suo spirito di diffidenza ad oltranza nei riguardi dei suoi amministrati non finisce poi per dare ascolto, come al solito, solo a chi dell’establishment sa raggirarlo, visti gli inconvenienti e gli accidenti circostanziali del giorno inaugurale auto-celebrativo. Con lo spaesamenti di utenti degli autobus che si vedono modificate le corse di linea, il sabato pedonale rischia di creare incolonnamenti d’auto periodici le cui scariche di gas comprometterebbero le compensazioni all’inquinamento Progest che ci si vuole ammannire , realizzando la dannazione, per i viaggiatori carichi di bagagli, di un micro sottopassaggio di fronte alla stazione A proposito, dato che sarebbe dovuta essere una festa di Mantova tutta, all’inaugurazione sono state invitate anche le opposizioni, perché presenziassero ufficialmente ? AmenSu Nitsch. Lettera al direttore
presunto assunto dell’arte presunta di Hermann Nitsch è in sé davvero ammirevole: disvelare l’arcano dell’orrore sacrificale su cui si fondano l’ordinaria vita religiosa nella sua economia sacrale e l’ordinaria vita domestica nella sua alimentazione quotidiana. Che cosa pertanto eccepire alla sua messa in mostra nel Palazzo Ducale , sposando i toni di sdegno assunti dalla destra e dalla Curia di Mantova : dissacrare è sacrosanto, vi è pure un’antropologia cattolica di cui il più alto esponente è stato René Girard, che condanna la logica sanguinaria del sacrificio, il sacro che uccide la vita in nome della vita, messo al bando una volta per sempre dal sacrificio di Cristo , così come tale sacertas si è manifestata ancora una volta nel recente Congresso mondiale sulla famiglia di Verona. In fondo, a laicizzare le cose, Nitsch non offrirebbe più di quello che è posto in vista nella macelleria dietro l’angolo di casa nei suoi banchi freezer. Ma un’obiezione di fondo si leva : fossero pur vere queste presupposizioni, si sparga pure sulle tele il sangue che già sia scorso nei macelli, ma perché non ricorrere piuttosto a carne finta, che sia rappresentata , invece di fare dell’azione artistica con squartamenti e sventramenti il male stesso messo in atto, Satana che scaccia Satana? Non cambia di certo le cose la giustificazione che si interviene su animali già uccisi, la sola logica nutrizionale ne potrebbe infatti giustificare per i più l’uccisione avvenuta , -semmai si ricorra ad animali morti di morte naturale e in via di putrefazione-, e le cose le peggiora tremendamente il sostenere che non è un sacrificio gratuito quello così inscenato, visto che l’artefice poi si nutrirebbe di tale carneficina dietro le quinte, poichè egli in tale suo pasto carneo trae profitto e giovamento alimentare da ciò che professa di voler denunciare. L’articolo 10 della Dichiarazione dell’Unesco del 1978 perora inoltre la difesa della dignità dell’animale nelle rappresentazioni artistiche, non solo della sua vita, per cui unicamente pezzi di carne anonima e solo per il nostro nutrimento possono figurare macellati in pubblico, per ipocrita che sia tale assunto comune, come lo è ogni ritualità del male. Certo, rendere con carne simulata, che sia terrificante in virtù di linea e di colore, tutto l’orrore del sacrificio del mondo animale per appagare i nostri gusti alimentari, richiede che chi opera sia un artista come Rembrandt o Annibale Carracci o Chaim Soutine, non un’altra sorta di macellaio, magari per mero lucro imbonitore: e questo è già un altro discorso.
Odorico Bergamaschi
traffico, inquinamento, inceneritore
L’esimio Sindaco Palazzi, anziché prendersela con non meglio precisati leoni di tastiera che ruggiscono contro il termovalorizzatore ProGest, una specie che davvero è a lui aliena e che è del tutto estranea al suo bestiario di corte, o con le opposizioni tutte per la nullità presunta della loro idea di città , meglio farebbe a prendere davvero sul serio la propria di idee di città, e a non contravvenire scelleratamente alle cose buone che pur fa, o che per lo meno si ripromette di fare, Mi riferisco, nel bene, all’insediamento in Mantova del nuovo corso di laurea in ingegneria informatica, robotica e intelligenza artificiale, ed alla creazione, in Mantova Hub, di spazi di ricerca diretti da Stefano Mancuso, massimo esperto di Neurobiologia vegetale, finalizzati a progetti di green economy, per fare in tale ambito di Mantova un Distretto della conoscenza di livello internazionale. A prendere infatti davvero sul serio tale ammirevole disegno, l’idrocoltura delle sue serre galleggianti o l’esplorazione del suolo con robot plantoidi a cui la ricerca di S. Mancuso prelude, vorrei ben vedere se la finalità dell’attività amministrativa sarebbe l’attuale di non sforare l’inquinamento massimo consentito, o peggio ancora di propiziare un innalzamento lieve della mortalità ambientale, laddove dovrebbe inflessibilmente prefiggersi di ridurre al minimo possibile l’inquinamento del territorio , mediante una rigenerazione effettiva dei suoi ecosistemi, pur se non si può invocare alcuna sovranità ambientale, per fare così di Mantova una città ideale per la sua salubrità territoriale, quanto lo è per la sua arte, il suo gusto e la sua cultura, .che non so, a dire il vero, quanto si sposino con il lasciare Piazza Sordello ad un Calcutta che vi canti che “ tutte le strade portano alle tue mutande”. Certo, si tratta di scommettere che le tecnologie delle ultime rivoluzioni industriali consentano una nuova alleanza tra lavoro e ambiente, anziché riproporre, con i vecchi modelli di sviluppo, l’ insanabilità di tale conflitto cui piegare il capo. Ora si dà invece il guasto ulteriore, complice Ars Val Padana, che anziché così operare coerentemente e conseguentemente, insieme con i suoi fidi il nostro primo cittadino sposti maldestramente il contrasto su di un altro fronte, devastante, compromettendo più ancora la nostra salubrità ambientale: che è mai, dicono coloro, quanto inquina in più un termovalorizzatore, rispetto al traffico automobilistico ed al riscaldamento in città, come se fosse per far posto ad un inceneritore in più che la circolazione veicolare andrebbe modificata e ridimensionata nelle vetture consentite o che si dovrebbero spegnere le stufe residue, in una sorta di compensazione che per altro trascende i poteri dell’amministrazione comunale, o, peggio ancora, quasi che si abbia da accettare una sorta di ricatto già in chiave elettorale, tra quanto l’amministrazione lascia che inquini la cittadinanza, e quanto si lascia che inquini il signor Zago, a tutto, per sua Altezza Serenissima, ponendo semplicisticamente rimedio sempre più piante, come basterebbero sempre più visori elettronici per stare sicuri. Sull’altro versante, però, così stando le cose, chi avversa il termovalorizzatore ProGest non può replicare solo sdegnandosi che per dare modo agli Zago di impiantare il loro inceneritore inquinante, si inviti il comune cittadino a circolare in bicicletta o a restare al freddo. Occorre infatti che a iniziare dalla limitazione dell’accesso automobilistico in città a chi vi vive e vi lavora, si accettino in replica le necessarie mutazioni degli stili di vita, architettonici ed urbanistici, nella viabilità e nei trasporti, che esigono un risanamento ed una rigenerazione di città e territorio, se è vero, quanto è vero, che traffico e riscaldamento sono talmente patogeni. Puntare il dito solo contro Zago sa di stonato.
Odorico Bergamaschi
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